E’ difficile risalire all’origine dell’espressione
comfort zone
anche se una prima comparsa ufficiale si può trovare nel titolo di un libro di Judith Bardwick “Danger in the Comfort Zone: From Boardroom to Mailroom – How to Break the Entitlement Habit that's Killing American Business” pubblicato nel 1991. All’interno del testo però
non si trova una definizione specifica
di questo concetto che può avere una sua origine in ambito
psicologico. Un altro riferimento alla
zone di comfort
risale ancora più indietro nel tempo al 1907 quando lo psicologo
Robert Yerkes
individuò l’idea di uno “spazio comportamentale” dove poter massimizzare la performance grazie a un certo livello di
stress superiore alla norma.
Ed è così che nacque la “egge di Yerkes-Dodson ovvero un modello di studio psicologico che collegava lo stress alla prestazione. Infatti sia la troppa che la poca attivazione genera nell’individuo delle performance negative, ma un giusto livello di stress è in grado di creare degli effetti positivi. Nel 2009 Alasdair A.K. White un esperto di management noto per il suo lavoro sulla gestione della performance aziendale insieme a John Fairhurst ha sviluppato un modello relativo al ciclo di vita delle prestazioni riuscendo così a definire il concetto di “comfort zone” nel documento “From Comfort Zone to Performance Management”. L’espressione quindi in realtà nasce nell’area organizzativa ed è utilizzata soprattutto nell’ambito manageriale e di business.
Possiamo definire la comfort zone “come uno stato psicologico (cognitivo ed emozionale) in cui la persona si sente a proprio agio, ha un pieno controllo dell’ambiente, sperimenta bassi livelli di ansia e di stress e può così mantenere costante il suo livello di performance”. L’idea della “comfort zone” ha avuto un enorme successo nel pubblico diventando un’espressione rapidamente popolare ma perdendo molto del suo significato originale. Spesso questo concetto si accompagna all’idea che sia sempre necessario uscire dalla “zona di comfort” per progredire come essere umano a prescindere dalle proprie caratteristiche (punti di forza e aree di miglioramento legate alla propria personalità). Una visione polarizzata e dicotomica in cui si contrappone il senso di sfida a quello di tranquillità. Ma questa visione rischia di essere una distorsione del principio della comfort zone. Se ci pensiamo un attimo , infatti, per quale ragione dovrei abbandonare qualcosa che può generare anche un beneficio dal punto di vista psicologico? Ed è sempre necessario “rompere gli schemi” per poter stare meglio? Ovviamente la risposta è molto più sfocata e “fuzzy” di quanto possiamo immaginare.
Vediamo alcuni esempi di persone che sono uscite dalla loro "zona di comfort":
Come puoi vedere, uscire dalla zona di comfort può significare affrontare nuove sfide, mettersi alla prova e superare le proprie paure. Spesso, uscire dalla zona di comfort può portare a grandi cambiamenti e sviluppi positivi nella vita di una persona. Ma per farlo serve aver sviluppato una piena consapevolezza dei propri punti di forze, delle aree di miglioramento e delle proprie fragilità.
Quante volte dei
motivatori e dei coach semplificano questo concetto riducendo tutto alla semplice idea
di “andare fuori dagli schemi”? Nella realtà le cose sono ovviamente molto più
complesse e richiedono quindi un approfondimento
rispetto alle caratteristiche
psicologiche individuali, agli obiettivi di cambiamento e al contesto in cui si opera. È normale avere una “zona di comfort” ovvero un luogo che ci fa sentire al sicuro e tranquilli.
Non c’è nulla di male
in questo anzi l’essere umano da sempre è alla ricerca sia di sfide che di luoghi sereni dove riposarsi.
Ad esempio l’Ulisse descritto da Omero nell’Odissea non si limita a partecipare alla guerra di Troia ma è spinto dalla “curiositas” non solo a scoprire nuovi luoghi ma a vivere profonde emozioni che lo condurranno a sfidare persino le divinità. Egli nonostante i successi ottenuti in più occasioni ha un solo grande desiderio quello di ritornare nella sua “petrosa Itaca” così infatti Ugo Foscolo definisce il luogo natio di Ulisse. Essa rappresenta la sua “zona di comfort” ed è il “nostos” che guiderà Ulisse fino al rientro. Nell’interpretazione di Dante Alighieri Ulisse una volta ritornato sull’isola prova una sensazione di tedio che lo spinge a ripartire per nuove avventure insieme ad alcuni fedeli compagni ed è per questo che riprende nell’immaginario dantesco il suo ultimo viaggio spinto proprio dal suo desiderio di conoscenza (“Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” Canto XXVI dell’Inferno tratto dalla “Divina Commedia”).
E’ chiaro che la necessità di un
cambiamento nasce quando un individuo inizia a maturare la sensazione
di essere rimasto bloccato all’interno di una ruotine che non lo fa evolvere, che riduce il suo livello di performance e quindi cerca di realizzare un cambiamento. Lo stress (positivo) generato dal fatto di mettersi in gioco può allertare il nostro organismo e stimolare la mente a trovare delle nuove soluzioni. Ogni individuo durante la propria esistenza
riflette sul desiderio di voler cambiare alcune abitudini, il suo stile di vita o la professione. Ma quando riesce realmente a farlo?
Non tutti infatti siamo come Ulisse
o come gli eroi contemporanei rappresentati nell’immaginario collettivo (dai super-eroi cinematografici agli sportivi iper-performanti). Spesso infatti in queste
narrazioni “epiche” viene trascurato un dettaglio importante
ovvero le caratteristiche specifiche dell’individuo, la sua personalità e la sua capacità di impegnarsi quotidianamente senza avere la certezza di ottenere un risultato concreto. Le
descrizioni ex-post generano l’illusione
che il percorso sia semplice, lineare e accessibile a tutti quando invece si
tratta spesso di un lavoro faticoso e dagli esiti incerti. Bisogna quindi
diffidare di quei motivatori e coach che semplificano tutto il discorso con l’espressione “Esci dalla tua zona di comfort!”.
L’essere umano cerca di risparmiare le sue risorse cognitive, tende a seguire e a ripetere degli schemi consolidati (dei quali normalmente ha una scarsa consapevolezza) e la parte emozionale può intervenire per bloccare ogni tentativo di cambiamento. Se una persona avverte un “pericolo” o un senso generale di “disagio” si possono mettere in moto dei comportamenti di evitamento. Il cambiamento per quanto possa apparire stimolante tende a generare delle inevitabili resistenze. Ad esempio, provate a pensare al senso di disagio che potete sperimentare quando il vostro smartphone subisce un aggiornamento del software. Potreste improvvisamente trovarvi smarriti e non riconoscere più un ambiente familiare. Questo fenomeno è noto agli psicologi come “effetto Lock-in”. Cambiare un’interfaccia di un programma produce immediatamente un calo della performance, incrementa il livello di stress e genera quindi delle ricadute anche negative. La comfort zone rappresenta quindi contemporaneamente due diversi stati psicologici contrapposti: uno legato alla sfida, allo sviluppo personale e professionale ma anche alle incognite che cambiare le nostre abitudini comporta in noi e un altro collegato alla dimensione della tranquillità che richiama però anche il senso di ruotine e di staticità. Il cambiamento anche se desiderato può accompagnarsi a uno stato psicologico di paura e di tensione e generare quindi dei comportamenti di evitamento. È come immaginare di trovarsi circondati da un recinto e sognare di poter oltrepassare questa barriera per scoprire nuove opportunità e nuove possibilità ma uscire da questi schemi comporta anche l’avventurarsi in zone ignote.
Il noto esempio dell’asino di Buridano spiega a livello simbolico uno dei problemi tipici dei processi decisionali basati esclusivamente sulla dimensione razionale. La storia recita quanto segue "Un asino affamato e assetato è accovacciato esattamente tra due mucchi di fieno con, vicino a ognuno, un secchio d'acqua, ma non c'è niente che lo determini ad andare da una parte piuttosto che dall'altra. Perciò, resta fermo e muore”. Se la razionalità gioca un ruolo fondamentale per la nostra mente l’idea di trovarsi davanti a due scelte uguali comporterebbe una sorta di “circolo vizioso”.
Ma bisogna anche sottolineare come due aspetti in netta contrapposizione potrebbero generare lo stesso blocco decisionale. Immaginate di dover scegliere tra due mete per una vacanza ad esempio Parigi o le Maldive. Se decidete di andare a Parigi rinuncerete al relax e alla bellezza di riposare in un’isola immersi dall’oceano ma se andrete alle Maldive non avrete a disposizione una romantica città d’arte. La scelta anche in questo caso appare impossibile sul piano puramente razionale dato che ogni decisione comporta sia un vantaggio che una perdita. L’ideale sarebbe poter avere un 30% di Parigi alle Maldive o viceversa ma sarebbe comunque una soluzione di “compromesso”. Per questa ragione quando siamo di fronte a una scelta i nostri processi decisionali possono entrare in conflitto e l’idea di lasciare qualcosa di conosciuto per una situazione affascinate ma al tempo spesso “preoccupante” potrebbe far scattare un meccanismo di fuga tipico dell’essere umano. I comportamenti più basici del nostro cervello sono orientati a garantire la nostra sopravvivenza e condividiamo questa parte con i nostri avi che vivevano nelle caverne. Le parti più antiche del nostro cervello sono programmate per stimolare dei comportamenti “innati” di fuga, attacco o di “congelamento” di fronte a un pericolo. Se nel passato questo era utile per sfuggire ad animali feroci oggi questo sistema si può attivare per “pericoli” virtuali o anche solo immaginati. L’idea ad esempio di cambiare lavoro o di lasciare la propria nazione per avventurarsi in qualche nuova esperienza professionale può creare comprensibilmente dell’ansia. Infatti un cambiamento deve sempre comportare un minimo di attivazione emozionale anche perché “l’ansia” se ben gestita può rappresentare un ottimo alleato. Infatti coloro che non provano paura rischiano spesso di mettersi in situazioni a pericolose e di fare una brutta fine, cosa che accade purtroppo di frequente negli sport estremi dove l’eccesso di sicurezza e l’assenza di “ansia” possono spingere la persona a compiere azioni sempre più pericolose mettendo così a repentaglio la propria esistenza. Ma anche sperimentare un alto livello di ansia rappresenta un problema dato che questo limita la possibilità di cambiare.
Un buon livello di stress è utile per migliorare la performance e consente di sviluppare nuove competenze e raggiungere nuovi obiettivi professionali. La zona di comfort è un luogo in cui ci sentiamo sicuri e protetti. Ma può anche essere una prigione che limita la nostra capacità di crescere, imparare e cambiare. È importante uscire dalla zona di comfort perché ci aiuterà a crescere, imparare e cambiare.
Proviamo a vedere qualche consiglio per ottenere questi risultati:
Psicologo del Lavoro e delle organizzazioni
Specialista in Psicoterapia
Esperto di VRT (Virtual Reality Therapy)
Master in Cognitive Behavioural Hypnotherapy
Ipnosi Clinica Evidence Based
Membro dell'American Psychological Association
Membro della Division 30 Society of Psychological Hypnosis
Past Vice President Ordine degli Psicologi del Piemonte
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